Dar da mangiare agli affamati
Dopo aver creato l’essere umano a sua immagine e somiglianza, dopo averlo ammirato e benedetto, il Signore Dio si preoccupa di nutrirlo perché possa vivere e crescere: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo» (Gen 1,29). Non è soltanto premura nei confronti di un fondamentale bisogno, ma anche un modo con cui Dio dice all’uomo quanto la sua vita sia preziosa ai suoi occhi, quanto è importante che l’uomo e la donna ci siano, che abbiano il necessario per una vita bella e sazia. Il Signore poi aggiunge un comando al dono del nutrimento, non per generare dipendenza, ma per creare una relazione: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne devi mangiare, perché nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire» (Gen 2,16- 17). Ma, proprio qui, l’uomo vive la sua più pericolosa caduta, creando una terribile scissione tra la sua fame e la provvidenza di Dio: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò» (Gen 3,6). Venendo a salvarci, nella pienezza dei tempi, il Signore ritorna sul “luogo del delitto” nel più imprevedibile dei modi: adagiandosi nella mangiatoia di Betlemme (in ebraico “casa del pane”), riprende il dialogo interrotto nel giardino dell’Eden, rivelando il significato più profondo del suo voler provvedere alla nostra fame. Il nutrimento da ricevere, senza scivolare in istinti di autonomia, è simbolo di un regalo più grande. Donandoci il cibo, il Signore vuole – da sempre e per sempre – donarci se stesso, per essere in comunione con noi: «Prendete, questo è il mio corpo» (Mc 14,22). Dar da mangiare agli affamati non è solo la primaopera di misericordia, ma è anche il paradigma di tutte le altre. La questione del cibo, infatti, non può in alcun modo essere considerata soltanto dal punto di vista biologico, perché, quando riceviamo e offriamo del cibo, ci ritroviamo a tessere il filo della nostra umanità, fatta a immagine e somiglianza di quel Dio mai sazio di offrirsi a noi come cibo.
Consigliare i dubbiosi
La prima opera di misericordia spirituale ha bisogno di essere quanto meno giustificata. Nella temperie culturale in cui viviamo – sempre più liquida e gassosa – avere dei dubbi non è certo avvertito come un problema da risolvere. Anzi, è considerato apprezzabile essere persone senza granitiche certezze su cui riposare o, peggio ancora, da sciorinare agli altri con supponenza. Tuttavia, l’esperienza personale ci mostra quanto sia necessario avere qualcuno da cui poter ricevere il conforto di un confronto sulle tante sfide che la vita di ogni giorno ci pone. Restano sempre valide le parole della sapienza biblica: «La salvezza dipende dal numero dei consiglieri» (Pr 11,14); «Se vedi una persona saggia, vai di buon mattino da lei, il tuo piede logori i gradini della sua porta» (Sir 6,36). Aver bisogno di un buon consiglio non è però garanzia di poterlo ricevere. Anche su questo la Scrittura è piuttosto lucida: «Guardati da chi vuole darti consiglio e prima informati quali siano le sue necessità: egli infatti darà consigli a suo vantaggio» (Sir 37,8).
Il dialogo notturno tra Gesù e Nicodemo offre una preziosa indicazione per imparare a consigliare chi è nel dubbio. Dopo aver dichiarato che «se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3), il Signore non esita ad affondare il colpo quando vede che questo fariseo si chiude anziché aprirsi alla novità dell’annuncio ricevuto: «Tu sei maestro d’Israele e non conosci queste cose?» (Gv 3,10). Consigliare un dubbioso significa (anche) essere disposti a disobbedire alla paura di perdere la sua amicizia. Significa avere la libertà di rivolgergli parole che possano turbare o destabilizzare il suo equilibrio, se a muoverci è l’amore per la verità della sua vita e per il suo miglior bene. Del resto è capace di consigliare solo chi è riconciliato con le proprie tenebre e sa bene come il cuore umano sappia essere un luogo di grandi ambiguità: «Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce\ perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,20-21).Spesso, i dubbi più seri – non quelli utili che ci fanno crescere – radicano nel fascino e nella caparbia chiusura delle tenebre che si impadroniscono della nostra volontà, facendoci preferire il male al bene. Contro questo genere di perplessità siamo salvati solo dal maggior fascino di un consiglio buono e vero, capace di ricordarci che le tenebre – ormai – stanno diradandosi: «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,5).
I testi sono tratti dal libro AMANTI PERCHÉ AMATI, Roberto Pasolini, Tau editrice, 2015.