Nei territori del Vicino oriente, dove sono ambientate le narrazioni e le pagine bibliche, l’acqua è una risorsa particolarmente preziosa.
Il profeta Geremia rimprovera il popolo che smette di custodire la gratitudine di fronte a colui che dà da bere agli uomini e alla terra: «Temiamo il Signore, nostro Dio, che dona la pioggia autunnale e quella primaverile a suo tempo» (Ger 5,24). Nei confronti di una risorsa così essenziale, l’uomo è chiamato a imitare la generosità di colui che – come dirà Gesù nel discorso della montagna – non fa distinzioni e a tutti offre il necessario per vivere: «Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e suoi buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). Già i profeti esortavano a non rifiutare mai l’acqua a chi ne ha bisogno: «Andando incontro agli assetati, portate acqua» (Is 21,14). Neanche se coloro che sono nell’indigenza fossero avversari e nemici: «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere» (Pr 25,21).
Per quanto l’acqua sia un bene assai prezioso e ripetuti siano gli appelli di Dio a goderne con spirito di gratitudine e di condivisione, la Bibbia documenta quali profondità del cuore siano coinvolte quando ci capita di dover offrire da bere a qualcuno che ne ha disperato bisogno.
La donna samaritana all’improvvisa richiesta di Gesù di poter essere dissetato con l’acqua del pozzo entra in un curioso dialogo con lo straniero che le ha chiesto da bere. Nel farlo, scopre che dentro la necessità dell’acqua si nasconde una sete più profonda: «Se tu conoscessi il dono dì Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4,10). Prendendosi cura di Gesù e della sua sete, dialogando con lui – ma in fondo con il proprio cuore – la donna accede al segreto di ogni opera di misericordia: essere una provvidenza per chi la riceve e una salvezza per chi la compie. Quando offriamo ad altri il conforto di ciò che manca al nostro cuore, permettiamo a Dio di agire come Padre nostro. E il peso della fatica che siamo chiamati a compiere si trasforma nella libertà di abbandonare a terra le nostre reti. Per accedere a nuove, meravigliose domande: «La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?”» (Gv 4,28-29).
L’insegnamento a chi è nell’ignoranza gode, generalmente, di una maggior stima ed è universalmente considerato un gesto di carità che qualsiasi società deve essere in grado di assicurare senza alcuna distinzione. Anche in un tempo come il nostro, dove le informazioni si possono reperire, condividere e accumulare con estrema rapidità, scopriamo un enorme bisogno di ritrovare sentieri per offrire – e ricevere – percorsi di apprendimento che lascino un segno profondo nella vita delle persone e non producano soltanto incrementi nozionistici. Inizia molto presto a insegnare il Dio della rivelazione ebraico-cristiana. Dopo aver cominciato a donare la libertà a un popolo, prima oppresso dalla schiavitù in Egitto, poi errante nel deserto, il Signore dell’Esodo decide di fornire tutto il necessario per portare a compimento la libertà non solo come dono, ma anche come compito. Per questo, durante il viaggio verso la Terra promessa dona a Israele la Legge (Torah “istruzione”, “insegnamento”) dichiarando subito il fine di un simile regalo: «Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre» (Dt 4,40). Provenendo da un secolo che ha dovuto mettere in crisi il concetto di autorità, per noi non è ancora immediato considerare una legge, un comando, una regola come un possibile alleato della nostra felicità. Un po’ingenuamente siamo tutti inclini a pensare che può dare gioia ed essere autentico solo ciò che è spontaneo, non costretto, non comandato. Per fortuna sono sufficienti l’esperienza e il contatto con la realtà a mostrarci che non è possibile godere della vita senza imparare a conoscere le leggi che la governano, non è possibile essere veramente liberi senza accettare la dipendenza che il nostro statuto di creature ci chiede di accogliere. Per questo Dio dona a Israele la Legge, per “recintare” il dono di una libertà troppo grande per poter essere correttamente vissuta e goduta, e per accompagnare i passi incerti di un popolo non ancora convinto che l’arsura del deserto sia meglio delle “cipolle d’Egitto”.
Il modo migliore per insegnare a chi è nell’ignoranza non consiste nel porgere un certo quantitativo di informazioni, ma nel condurlo a fare una rinnovata esperienza delle cose. Si impara, infatti, non quando si memorizzano concetti, ma quando si mettono in pratica nuove parole, capaci di dare una forma diversa a quello che siamo e a quanto siamo disposti a essere. Il Signore Gesù, riconosciuto come Maestro, si inserisce proprio in questa linea educativa: «Giunsero a Cafarnao e subito Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc 1,21-22). Il vangelo non ci riferisce il contenuto ma la forma dell’insegnamento di Gesù.
Non solo la trasmissione della fede, ma ogni azione educativa è un vero atto d’amore, possibile solo disobbedendo alla paura che si scatena di fronte al rifiuto e all’indifferenza. La posta in gioco è altissima e ci immerge nel cuore stesso di Dio: la felicità e la libertà per chi è ancora «nelle tenebre e nell’ombra di morte» (Lc 1,79).