Assente dall’elenco delle opere di carità secondo il vangelo di Matteo, la sepoltura dei morti è pratica di pietà attestata nelle Scritture e nel giudaismo: «Figlio, versa lacrime sul morto, e come uno che soffre profondamente inizia il lamento; poi seppelliscine il corpo secondo le sue volontà e non trascurare la sua tomba» (Sir 38.16). La sepoltura è nella Bibbia la forma più appropriata per accompagnare il ritorno alla terra di coloro che sono morti. Mentre l’imbalsamazione è un’eccezione dovuta all’influenza egiziana, attestata solo per Giacobbe e Giuseppe (cf. Gen 50,2-3.26), la cremazione sembra essere temuta come un oltraggio al corpo, da riservare eventualmente solo ai nemici (cf. Am 2,1). Al contrario, i re venivano deposti nel sepolcro come uno sposo è accompagnato dentro il suo talamo nuziale, come si racconta per il re Asa: «Lo seppellirono nel sepolcro che egli si era scavato nella Città di Davide. Lo stesero su un letto pieno dì aromi e profumi, composti con arte di profumeria; ne bruciarono per luì una quantità immensa» (2Cr 16,14). Quando i salmi descrivono la disgrazia e la sofferenza di Gerusalemme, a causa dell’infedeltà del popolo e dell’arroganza delle nazioni pagane, il triste spettacolo di corpi abbandonati nelle strade, senza nessuno che possa assicurarne la sepoltura, diventa occasione di supplica e di accorata preghiera: «Hanno abbandonato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, la carne dei tuoi fedeli agli animali selvatici. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme e nessuno seppelliva» (Sal 79,2-3). Nel vangelo, i discepoli di Giovanni Battista sembrano già aver intuito l’immenso valore che il corpo umano ha acquistato attraverso l’incarnazione del Verbo di Dio: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?» (1Cor 6,15). Dopo che il loro maestro è stato giustiziato per il capriccio di un re pusillanime e ambizioso, si precipitano a offrire al corpo esanime l’omaggio di una dignitosa sepoltura: «I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro» (Mc 6,29). Il riconoscimento dell’inestimabile valore del corpo umano, anche dopo l’evento della morte, sembra essere intuito ancora più profondamente da Nicodemo. Dopo essersi recato da Gesù di notte, per scoprire come poter rinascere dall’alto a una vita nuova, dopo aver cominciato a mostrare il suo interesse per il destino di Gesù davanti ai sacerdoti e ai farisei (cf. Gv 7,50-51), Nicodemo si espone pubblicamente dopo la crocifissione, compiendo una generosa sepoltura del corpo di Gesù, dove l’abbondanza di aromi e profumi esprime la capacità dell’amore di avvolgere l’altro anche nel momento della sua apparente assenza (cf. Gv 19,38-42). Questo gesto è sembrato talmente importante alla chiesa primitiva da essere stato inserito senza esitazioni nel kerygma: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture» (1Cor 15,3-4). I cristiani, infatti, ormai battezzati in questo mistero di amore – vita, morte e risurrezione – non possono esimersi dal farsi carico del corpo dei fratelli, soprattutto nell’estremo momento della morte, dove tutti partecipiamo al mistero pasquale di Cristo in attesa della risurrezione della carne. E espressione di amore accompagnare il ritorno alla terra di quanti sono ormai destinati al cielo: «La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3,20-21).
La rivelazione biblica, già nelle sue prime pagine, attesta che la nostra esistenza ha origine in un Dio incapace di rapportarsi con le sue creature se non a partire da una capacità di amare fino al perdono. Di fronte all’originaria trasgressione del limite nel giardino dell’Eden, il Signore non reagisce con ira ma, passeggiando in mezzo alle sue creature, rivolge la parola all’uomo per recuperare subito il rapporto: «Dove sei?» (Gen 3,9). Nemmeno dopo il peccato di Caino la sua condotta cambia, mantenendosi sempre sui binari di quella misericordia che custodisce e promuove chi è entrato dentro la spirale del male: «Ebbene, chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!» (Gen 4,15). Anche i profeti, incaricati di richiamare con forza il popolo alla responsabilità dell’alleanza e di denunciare con forza l’infedeltà e il peccato, non riescono a tacere l’ostinata volontà di bene di un Dio che arriva a gettare nelle profondità del mare il registro dei nostri fallimenti: «Quale dio è come te, che toglie l’iniquità e perdona il peccato al resto della sua eredità? Egli non serba per sempre la sua ira, ma si compiace di manifestare il suo amore. Egli tornerà ad avere pietà di noi, calpesterà le nostre colpe. Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati» (Mi 7,18-19). Nelle parole del profeta Michea troviamo un originale spunto di riflessione sulla pratica del perdono, opera di misericordia tanto desiderabile da ricevere quanto ardua da offrire. L’immagine del fondo del mare come luogo in cui bisogna seppellire la lista dei risentimenti e delle rivendicazioni ci fa capire che il problema del perdono non è una questione di quantità ma di qualità. Spesso viviamo il perdono delle offese come uno stillicidio perché crediamo di poter condonare i debiti a rate, naturalmente con una bassa percentuale di interessi. Gesù, però, è stato estremamente chiaro su questo punto, e nella preghiera del Pater noster ci ha insegnato a chiedere di non chiedere al Padre nulla che, noi per primi, non siamo disposti a offrire: «E rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). Eppure la limpidezza di un simile insegnamento si scontra con la nostra attitudine a fare i conti, anche quando si tratta di amore: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?» (Mt 18,21). La parabola con cui il Signore Gesù risponde alle domande di Pietro (cf. Mt 18,23-35) lascia intendere che, in realtà, il perdono è una faccenda «di cuore», in cui gli sconti non sono ammessi. Il racconto del debitore a cui viene condonato un grosso debito (trecento tonnellate d’oro), che non riesce ad avere alcuna misericordia nei confronti dì chi gli è debitore soltanto di una piccola somma (mezzo chilogrammo d’argento), ci segnala un drammatico disturbo di coscienza che tutti abbiamo. Mentre attendiamo – e mendichiamo i segni di un amore incondizionato, che mai potremmo ripagare fino in fondo, siamo sempre pronti a tirare il collo al nostro prossimo, al sorgere del primo sgarro. Potremmo invece approfittare delle occasioni in cui veniamo offesi, ignorati o maltrattati, per consentire alla misericordia di compiere in noi la sua opera più bella. Testimoniare la verità dell’amore più grande, quello che è persino capace di strappare dalle mani dell’altro il male che ha scelto di fare, per gettarlo in fondo al mare del perdono: «Quello che vuoi fare, fallo presto» (Gv 13,27).