Recarsi presso un infermo, offrirgli il conforto di una presenza amica e il calore di una sincera vicinanza è prescritto a chiare lettere nella Bibbia come qualcosa da compiere senza pensarci troppo: «Non esitare a visitare un malato, perché per questo sarai amato» (Sir 7,35). Oltre che rispondere a un principio di carità molto condivisibile, l’invito del Siracide è anche piuttosto realista. Ci ricorda che quando si aiuta una persona, in realtà, non ci fa solo essere persone migliori, ma ci fa anche sentire persone amate. Nella Scrittura troviamo abbondanti racconti in cui gli esseri umani assolvono a questo imperativo del cuore, recandosi da qualcuno che soffre e non può muoversi a causa di una malattia, per dargli un po’ di conforto e alleggerire il peso della sua solitudine.Nel Nuovo Testamento la visita agli infermi è prescritta come necessaria manifestazione dell’amore fraterno (cf Gc 5,14-15), a partire dall’esempio e dalla vita di Gesù, il quale ha comandato ai suoi discepoli di compiere questo gesto come prima forma di testimonianza alla venuta del Regno: «E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi» (Lc 9,2). Il vangelo attesta anche il modo con cui Gesù ha insegnato a visitare gli infermi, attraverso la sua stessa vita. Nel vangelo di Giovanni si parla di un uomo gravemente infermo, che giaceva a terra presso la piscina di Betzatà a Gerusalemme: «Si trovava un uomo che da trentotto anni era malato» (Gv 5,5). Ci sono, infatti, aspetti della nostra umanità che attendono redenzione da tutta una vita, ma essere da lungo tempo infermi non significa necessariamente avere anche voglia di assumere la guarigione come compito e non solo come elemosina. Quest’uomo, da sempre immobile, corre il rischio in cui noi tutti scivoliamo quando siamo segnati da un’antica ferita, diventando prigionieri della rassegnazione, schiavi di quel vittimismo che pretende di esserci compagno nella sofferenza: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me» (Gv 5,7). Visitandolo con la sua presenza e con la sua voce, il Signore Gesù conduce quest’uomo a modificare lo sguardo, spostando l’attenzione dalle circostanze esterne – a prima vista (sempre) sfavorevoli – a quelle interne. Gli risponde con una domanda che, se non fosse piena di amore, potrebbe sembrare persino piena di ironia: «Vuoi guarire?» (Gv 5,6). Visitare gli infermi non è solo riempire il vuoto di una solitudine o appoggiare la mano sulla spalla di chi è – e si sente – tagliato fuori dalla vita. E anche annunciargli, con estremo rispetto e umiltà, che la vita può sempre e ancora essere desiderata. Eventualmente attesa, nella speranza e nella preghiera.
Nella visita a coloro che sono detenuti in una prigione, la misericordia appare più limpidamente come opera di Dio e non solo come atto di giustizia o compassione umana. Mentre negli affamati, negli assetati, negli ignudi e nei forestieri noi vediamo uno stato di bisogno innocente, sui carcerati grava l’ombra di una colpa, la macchia di un delitto commesso. Da quando, però, Gesù ha pronunciato le parole: «Ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,36), la prigione non è più il luogo dove alcune persone – giustamente o ingiustamente – sono confinate per un certo periodo della loro vita. È anche il luogo dove l’umanità del Verbo incarnato è presente nella storia nella sua forma più misteriosa.La possibilità di incontrare il Signore Gesù proprio nelle persone che vengono emarginate a causa del loro peccato è un termometro che dice quanto la Chiesa e i cristiani stiano vivendo un’esperienza di fede e non solo costruendo un mondo religioso. Per poter andare con speranza e amore a visitare un carcerato, bisogna infatti essere in un rapporto redento con la fame e la sete di giustizia, ma anche profondamente riconciliato con il mistero di debolezza e fallibilità che segna la vita di tutti. I primi cristiani non avevano alcun dubbio circa la pochissima distanza esistente tra persone libere e detenuti: «Ricordatevi dei carcerati come se foste loro compagni di carcere» (Eb 13,3). Come dimenticare uno dei titoli più belli e paradossali con cui l’apostolo Paolo arriva a parlare di se stesso: «Per questo io, Paolo, il prigioniero di Cristo per voi pagani...» (Ef 3,1)? La possibilità di sentirsi ‘prigionieri” a causa dell’amore di Dio matura nel cristianesimo delle origini proprio attraverso le tribolazioni e le sofferenze patite a causa dell’annuncio del vangelo. Dopo aver fatto uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni, il re Erode fa arrestare anche Pietro, gettandolo in carcere. La preghiera della Chiesa per questo fratello imprigionato sortisce un inaspettato e misterioso effetto: «Ed ecco, gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e gli disse: «Alzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani.L’angelo gli disse: “Metti il mantello e seguimi!, Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si rendeva conto che era realtà ciò che stava succedendo per opera del Vangelo: credeva invece di avere una visione» (At 12,7-9). Simile a un incubo, dove la qualità dei rapporti e del quotidiano rischia di precipitare verso le più basse latitudini, il carcere ha bisogno di essere raggiunto dalla forza di una solidarietà sincera e di un amore maturo, così tenaci da saper (ri)creare la speranza in una impossibile ripresa di vita. Per visitare chi è nel carcere occorre essere familiari con la debole forza della misericordia, che infonde la capacità di poter aprire la porta di qualsiasi inferno e di offrire il conforto, senza però cedere al fascino di poter compiere del bene regalando illusioni.