Giuseppe Moscati: medico primario ospedaliero, insigne ricercatore, docente universitario di fisiologia umana e di chimica fisiologica.
Se Moscati ebbe un carisma e un compito nella Chiesa, fu quello di mostrare una tale unità tra i vari campi da rasentare l’incredibile: nessuno oggi oserebbe imitarlo nel modo con cui egli intrecciava insieme scienza e fede, professione umana e professione cristiana, cura del corpo e cura dell’anima. La più recente edizione dei suoi scritti ha una prefazione in cui si dice: Moscati è un laico che parla soprattutto a noi laici e non tanto con la parola quanto con la testimonianza vissuta nella quotidianità. Il suo è un invito alla coerenza e all’ impegno a cui non possiamo restare indifferenti se non vogliamo venir meno alla nostra vocazione.
Nasce nel 1880 a Benevento, ha appena un anno di vita quando il papà, magistrato, viene trasferito ad Ancona e poi alla Corte d’Appello di Napoli. Napoli sarà dunque la sua città: dove riceve la prima comunione, si iscrive al ginnasio, dà la maturità classica e si laurea in medicina nel 1903. Una infanzia e una giovinezza assolutamente normali, in una famiglia veramente cristiana, nella quale non mancano le sventure: il papà muore improvvisamente quando Peppino si è appena iscritto all’università; qualche anno dopo, in seguito a lunga malattia, gli muore un fratello che ha solo 32 anni. La carriera medica di Giuseppe Moscati durerà 24 anni, poiché egli muore nel 1927 ad appena quarantasette anni di età.
Scrive un suo biografo: La figura di Moscati deve essere inquadrata nel clima culturale dominato dal positivismo che dilagò negli ultimi anni dell’800 e nei primi del 900. Egli fece parte del gruppo di laici che, nonostante la tendenza del momento, contribuirono in modo determinante a far riscoprire nel mondo la vitalità e la perenne giovinezza della Chiesa.
Celebre era, tra i colleghi di Moscati, il suo assoluto disinteresse per il denaro. Ecco una significativa testimonianza di un medico che spesso lo osservò nell’esercizio della professione: Egli che amava vedere negli ammalati la dolorosa figura di Cristo, non voleva ricevere denaro e di ogni offerta soffriva visibilmente. In casa Moscati, la sorella che lo assisteva riceveva tutti i suoi guadagni e li amministrava con l’impegno di trattenere il necessario per vivere decorosamente e di destinare il resto ai bisognosi. Lo stesso professore tornava dalle visite portando con sé gli indirizzi delle famiglie povere che aveva incontrato, li passava alla sorella e le diceva di provvedere. A parte le visite agli malati e l’enorme clientela che giungeva da tutto il meridione e letteralmente lo soffocava, il suo ininterrotto lavoro aveva luogo nelle corsie dell’ospedale, che egli percorreva attorniato dai suoi discepoli ai quali insegnava medicina direttamente dalla osservazione dei malati (“trattava anche gli studenti del primo anno come colleghi e non mancava di chiedere la loro opinione). I discepoli che seguivano quotidianamente Moscati letteralmente lo veneravano e molti lo accompagnavano fino a casa continuando a discutere con lui e a interrogarlo. Uno di loro rievoca commosso la scena divenuta familiare a Napoli: “Lo portavano in processione come se fosse un santo”. E quasi tutti finivano, dopo il giro domenicale nelle corsie, per accompagnarlo a Messa.
In un biglietto che la sorella raccolse dal cestino della carta straccia leggiamo una specie di confessione che egli scrisse per se stesso: “Mio Gesù amore! Il vostro amore mi rende sublime; il vostro amore mi santifica, mi volge non verso una sola creatura, ma a tutte le creature, all’infinita bellezza di tutti gli esseri, creati a vostra immagine e somiglianza”. Amare Dio senza misura nell’amore, senza misura nel dolore”; questa era la massima che identificava assieme sia la sua missione di medico cristiano, sia lo sguardo con cui osservava i malati. Tutti sapevano – dice un testimone – che il Prof. Moscati era come un sacerdote e la lotta fatagli dai massoni medici e dagli altri colleghi materialisti non l’ha mai abbattuto… Soleva dirmi: “Che cosa m’importa degli altri? Il mio pensiero è contentare Dio”. A tutti i malati domandava se erano in grazia di Dio, se frequentavano i Sacramenti, se erano in regola con la loro coscienza. Insomma, curava prima l’anima e poi il corpo degli infermi che andavano da lui. Moscati sosteneva tranquillamente che nell’ ospedale “missione di tutti” – suore, infermieri, medici – era “collaborare alla misericordia di Dio.
Nelle pagine del suo diario diceva: “Ama la verità, mostrati quale sei e senza infingimenti e senza paure e senza riguardi. E se la verità ti costa persecuzione accettala; e se (ti costa) il tormento sopportalo. E se per la verità dovessi sacrificare te stesso e la tua vita, tu sii forte nel sacrificio”.
Essere chiamati all’esistenza ed essere chiamati a una missione dovrebbero per il cristiano diventare una sola cosa, come lo fu per Gesù, il cui io consisteva totalmente nel lasciarsi mandare dal padre, nel fare totalmente la Sua volontà. Moscati ebbe la grazia di sentire e vivere la vocazione di medico come totalmente espressiva del senso e dello scopo della sua esistenza, ed essa ricoprì tutto il suo essere ed esistere. Alla lettera piena di gratitudine di un discepolo medico che lo lasciava per un primo incarico, Moscati rispondeva lasciandogli in eredità questo ricordo: “Non la scienza ma la carità ha trasformato il mondo… Ho sempre vivo nel cuore il rammarico di sapervi lontano e solo mi conforta che abbiate conservato in voi qualcosa di me; non perché io valga nulla, me per quel contenuto spirituale che mi sforzo di trattenere e di diffondere intorno. Io vi tengo presente, siatene sicuro. Vi bacio in Cristo!”
Mentre il giovedì santo del 1927, il corteo funebre si snodava per le vie di Napoli, con un immenso seguito di docenti, di studenti e di umile gente, un vecchietto si avvicinò al tavolino posto nell’androne di casa Moscati e sul registro delle condoglianze scrisse con mano tremante: Noi lo piangiamo perché il mondo ha perduto un santo, Napoli un esemplare di ogni virtù e i malati poveri hanno perso tutto”.
(Sicari A., Nuovi ritratti di Santi, vol. 2 pp 151-175, Jaca Book)