In Lui, vita nuova!

Giorgio La Pira, quando la politica sa diventare profezia

La Pira

Giorgio La Pira: chi non conosce oggi questo piccolo uomo vivace e dolce, questo “cristiano da choc”, che si è lanciato nella vita pubblica senza nulla concedere alla potenza del denaro, né perdere nulla del suo temperamento d’asceta? Il fatto è tanto raro che sembra un miracolo. Totalmente povero, una camera d’ospedale per casa, votato al celibato, La Pira attraversa gli onori senza vederli. Coltiva due grandi amori: l’amore per gli operai e per gli Ordini contemplativi con i quali intrattiene rapporti costanti”.

Questo brevissimo profilo appariva sul quotidiano francese “Le Monde” il 29 giugno 1955, quando La Pira aveva cinquantun anni e, come sindaco di Firenze, aveva requisito d’autorità una fabbrica per impedirne la chiusura e l’aveva affidata agli stessi operai, riuniti in cooperativa. In quegli anni, La Pira era Firenze; eppure era nato in Sicilia, nell’estremo sud dell’isola (a Pozzallo di Ragusa, nel 1904). Vi era giunto, provenendo dall’ Università di Messina, per seguire il professore di Diritto Romano col quale difendere la tesi di laurea. Aveva passato i primi dieci anni di vita al paesello natìo nella sua antica, buona e povera famiglia; poi uno zio commerciante – noto massone e duro anticlericale – l’aveva preso con sé a Messina per fargli studiare ragioneria e introdurlo nella sua impresa. Il ragazzo aveva così trovato una scuola e un lavoro, ma aveva perso la fede, tanto che, a sedici anni, invitato a parlare in un circolo giovanile cattolico, aveva messo come condizione che prima togliessero dalla parete il crocifisso…Diplomato ragioniere a diciotto anni, aveva poi superato in un solo anno gli esami di maturità classica e s’era iscritto a Giurisprudenza. Tra i diciotto e i vent’anni, l’incontro con un dotto e santo sacerdote gli aveva pian piano spalancato il mondo della fede e della preghiera, e Giorgio aveva intuito che la vita era fatta “per gettare mille ponti tra la terra e il cielo” e che la mente e il cuore dell’uomo erano “finestre aperte verso il mondo soprannaturale”.

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L’unione mistica con Cristo sarà il suo sogno per tutta la vita. Già allora poteva scrivere al suo confessore: “Ho davanti agli occhi il SS. Sacramento esposto, e ogni parola è come una lacrima…”. Più tardi accadrà a volte che lo cercheranno affannosamente – perché i lavori al Consiglio comunale devono riprendere dopo la pausa o perché il professore è atteso per una conferenza o una lezione – e lo troveranno assorto in adorazione, davanti al tabernacolo di qualche chiesetta vicina dove si è rifugiato, dimentico che l’ora fissata è passata da un pezzo. Sceglie il suo stato di vita a ventiquattro anni, entrando nell’Opera della Regalità di Cristo, fondata da padre Agostino Gemelli. Non avrà mai una casa propria, né avrà mai denaro suo, nemmeno quando sarà diventato amico di tutti i potenti del mondo. Aveva il suo stipendio di professore universitario, certo, ma una volta a chi gli chiedeva un aiuto economico rispose: “E tu il 29 del mese vieni? Dovevi venire il 27 (giorno in cui ritirava la paga). Ormai ho dato via tutto”. Gli nacque in cuore il desiderio di “sborghesire” ancora di più la sua vita e quella di alcuni professori universitari e studenti amici, mettendo in pratica, letteralmente, il consiglio evangelico di “invitare nella sala del banchetto poveri, zoppi e ciechi”. Organizzò così nella chiesetta di San Procolo la “messa del povero”: Una messa per i più miserabili dove si dispensava assieme il pane eucaristico e il pane quotidiano e si offriva loro compagnia e amicizia. Nacque così e si sviluppò quella che La Pira amava chiamare “La Repubblica di San Procolo”.

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Era nata nel 1934 e cresceva negli anni duri nei quali il fascismo si affermava con la sua tracotanza e le violenze quotidiane annunciavano la guerra imminente. Consapevole della sua responsabilità da uomo di cultura, La Pira comprese subito che non bastava soltanto la carità a contrastare quell’idolatrico culto dello Stato, della forza e della razza, che si diffondeva paurosamente. La PiraNel 1939 decise di fondare una piccola rivista, “Principi”, per denunciare la tesi del regime, ma fu obbligata a chiudere dopo solo dieci mesi di vita. Nel 1938 quando i docenti dell’università erano stati precettati per garantire turni notturni di guardia al sacrario dei caduti in Santa Croce, obbligati a comparire in camicia nera e moschetto, La Pira s’era presentato, sì, in camicia nera ma spiegando che – dato che si trattava di una veglia di preghiera – al posto del moschetto aveva portato il rosario. L’avevano subito esentato.

Quando nel 1943 Firenze fu occupata dai nazisti il professore fu costretto a rifugiarsi prima nelle campagne senesi, e, in seguito, a Roma. Dopo la liberazione fu subito chiamato nel consiglio nazionale della Democrazia Cristiana ed eletto deputato alla Costituente. Fu nominato membro (assieme a Moro e Togliatti e ad altre personalità di spicco) della più importante commissione, quella che doveva formulare i principi La Pirafondamentali della Costituente Italiana. Vennero le difficili elezioni del 1948 e La Pira fu eletto sottosegretario al Ministero del lavoro nel primo governo De Gasperi. L’incarico ricevuto aveva provocato in lui una vera “conversione”. Fino a quel momento egli sapeva quasi tutto della carità, ora si sentiva costretto a sapere tutto anche sulla giustizia. Come privato cittadino s’era interessato dei poveri, ora doveva preoccuparsi perché la società e lo Stato non li producessero con scelte e leggi ingiuste.

La PiraNel 1951 gli offrirono di candidarsi come sindaco di Firenze per strappare la città all’amministrazione comunista; al parlamento italiano fecero approvare in fretta una legge che dichiarava incompatibile la carica di sindaco con quella di parlamentare. La Pira scelse Firenze. Trovò una città da ricostruire dalle macerie dei bombardamenti e dalle miserie del dopo guerra. Le prime scelte furono quelle che esigevano più immediatezza: i bambini per lo più denutriti, che giungevano a scuola ogni mattina, ricevettero a spese del Comune una tazza di latte caldo. I poveri o chiunque avesse problemi potevano scrivere direttamente al sindaco e consegnargli manualmente le loro richieste: così il povero La Pira aveva sempre le tasche del suo stropicciato vestito o dall’ impermeabile piene di fogli, foglietti e pizzini che la gente gli metteva in mano o direttamente in tasca e a tutti veniva data risposta e qualche aiuto.

Intanto c’era chi lo sommergeva di contumelie e denunce. Ma questo era ancora niente rispetto a ciò che accadde nel 1953 quando la proprietà “Fonderie Pignone” che davano lavoro a circa duemila operai, cominciarono a inviare le lettere di licenziamento per cessata attività. E c’erano in gioco interessi internazionali per affrettarne la chiusura.

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La Pira si schierò con gli operai. Lo accusarono di “fare il gioco dei comunisti”. La Pira rispose severamente: “Il gioco dei comunisti lo fanno coloro che disconoscono la santità e l’improrogabilità del pane quotidiano gettando nella disperazione e nella radicale sfiducia i deboli”. E a tutti gridava: “Il pane e quindi il lavoro è sacro. La casa è sacra. Non si tocca impunemente né l’uno né l’altro. Questo non è marxismo: è Vangelo!”. La “Nuova Pignone” diventerà un fiore all’occhiello dell’industria italiana e si espanderà fino a intrattenere affari con l’Africa, con la Russia, con la Cina….

Furono questi dunque i due primi immediati obiettivi della sua amministrazione: farsi carico dei bisogni primari della povera gente e assicurare lo sviluppo economico della città. Ma poi c’era anche il terzo obiettivo che gli stava ugualmente a cuore: il ruolo di Firenze nel mondo. Cominciò a organizzare ogni anno i “Convegni per la pace e la civiltà cristiana”, invitando a dialogare uomini di cultura di ogni estrazione su temi che egli stesso inventava e La Piraintroduceva. Erano gli anni del dopoguerra, quando le nazioni erano ancora ripiegate su se stesse e il dialogo quasi inesistente. Inventò nel 1955 il “Congresso dei sindaci di tutte le capitali del mondo” e fu la prima volta che giunsero in Occidente anche il sindaco di Mosca e il sindaco di Pechino. Non contento di questo, La Pira diede il via anche ai “Colloqui del Mediterraneo” con lo scopo di fare incontrare e dialogare i rappresentanti delle tre grandi religioni e di favorire il processo di riconciliazione tra arabi, ebrei e cristiani: popoli che lui chiamava “la famiglia di Abramo”. La PiraLa stampa nazionale a volte parlava di La Pira con qualche ammirazione, ma più spesso lo sommergeva di ingiurie e di calunnie per le aperture al mondo marxista: “Il pesce rosso nell’acquasantiera” era il titolo più simpatico che gli avevano affibbiato. Ma il professore non ci badava più di tanto. Scriveva regolarmente delle circolari a un migliaio di monasteri di clausura per spiegare alle monache, punto per punto, i suoi progetti e la maniera in cui intendeva realizzarli. Era assolutamente convinto che la forza più grande esistente al mondo fosse la preghiera. Esito di questa amicizia tra sindaci, fu nel 1955 l’inaudito invito al Cremlino di La Pira che accettò subito. Fu un viaggio preparato con estrema cura teologica: era convinto che tutte le libertà umane sono indissolubilmente collegate tra loro e che la pace tra le nazioni doveva essere costruita a tutti i livelli della realtà umana: economico, sociale, politico, culturale, religioso e che rinunciare a un solo livello voleva dire distruggere tutto l’edificio. Tornò in Italia e si trovò nuovamente sommerso dalle contumelie, i giornali riesumarono tutti i titoli che gli avevano affibbiato negli anni e spiegavano che finalmente “il pesce rosso nell’acquasantiera” e “il comunistello di sacrestia” s’era scoperto: era andato a Mosca a rivestire gli assassini della Chiesa. Il “Corriere della Sera” chiedeva l’intervento dell’autorità ecclesiastica e suggeriva “autorevolmente” che era il caso di scomunicarlo.

La PiraVennero gli anni del Concilio Ecumenico Vaticano II e La Pira respirò a pieni polmoni, felice come un fanciullo alla vista della sua Santa madre Chiesa che ringiovaniva. Intanto il mondo attraversava la gravissima crisi della guerra nel Vietnam che sembrava senza uscita. Il vecchio Ho Chi Minh aveva fatto vagamente capire che era disposto a parlare con un solo occidentale: con La Pira anche se non era più sindaco di Firenze, ma era stato nuovamente eletto alla Camera dei Deputati. Il professore si mise in viaggio senza nemmeno avere un visto di ingresso per il Vietnam del Nord e nemmeno il denaro per il ritorno. I due si inoltrarono in una lunga, articolata discussione. Alla fine Ho Chi Minh offrì la pace. Felice La Pira ritornò in patria e attivò i canali amichevoli necessari per comunicare l’offerta di Ho Chi Minh ma l’interesse o l’imprudenza di alcuni giornalisti e di alcuni uomini politici si rivelarono disastrose: la notizia venne pubblicata dalla stampa americana come se il Vietnam del Nord implorasse l’armistizio. A quel punto arrivano dal Vietnam la più completa smentita e il rifiuto di ogni trattiva e i bombardamenti ripresero più feroci di prima. Fu la fine di ogni dialogo e la tempesta si abbatté su La Pira: lo accusarono di essersi inventato tutto, d’essere un visionario, un maniaco religioso, un superficiale, un fallito.

La PiraE il professore visse la sua agonia, il suo calvario. Era la “prova della fede”. A confortarlo e rasserenarlo ci fu solo un vecchio prete, don Facibeni, noto a Firenze per la sua immensa carità. A partire dal 1966, in Italia nessuno sembrò aver più bisogno di La Pira: nessuno gli offrì di ricandidarsi al Parlamento; nessuno gli offrì più la carica di sindaco. Lo rieleggeranno deputato solo dopo il 1976, quando sarà ormai prossimo a morire. Quando nel 1975 in Vietnam si giungerà ad un accordo di pace, nessuno sembrerà accorgersi che l’accordo si fa negli esatti termini annunciati da La Pira dieci anni prima.

La Pira visse l’ultimo decennio della sua vita insegnando e continuando a portare il suo messaggio e la sua parola dovunque si tenessero convegni a favore della pace o dell’unità della famiglia umana, o dovunque fosse necessario rintracciare e indicare ai popoli o ai giovani segni di speranza: senza mai rinunciare al suo sogno di pace di fraternità universali, ma sempre contemplando e facendo contemplare il volto di Cristo Risorto e quello della Vergine Santissima. Durante il viaggio in Russia, al suo segretario che si rammaricava di vedere le poche chiese deserte, frequentate solo da alcune donne anziane, con la candelina in mano, aveva detto: Tu dovresti smettere di fare il giornalista e dedicarti piuttosto alla teologia delle vecchine. Vedi, se queste vecchine non tenessero accesa la fiammella della fede in Cristo, dove troverebbero le nuove generazioni russe il fuoco per accendere l’incendio cristiano che inevitabilmente verrà?”.

Questo era il carisma di La Pira: dove gli altri vedevano una fiammella in procinto di spegnersi, lui vedeva una fiammella pronta a far divampare un incendio. (Cf. Sicari A., Nuovi ritratti di Santi, vol. 9 pp 145-164, Jaca Book)

 

 

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