La santità è sempre un viaggio, un cammino che dura tutta una vita e che ciascuno percorre e vive, secondo il disegno scritto da sempre nei cieli. Sembra quasi una metafora quella della santità come viaggio, e forse lo è per tanti, ma non per BAKHITA, che oggi si dona a noi nel suo profilo di santità proprio a partire da un viaggio, da tanta terra calpestata da piedi ancora piccoli, da tanta strada percorsa da passi ancora fragili.
Bakhita nasce ad Olgossa, nel Darfur regione del Sudan occidentale e qui vive serenamente i primi anni della sua vita insieme alla sua famiglia, tra le capanne e i campi del suo villaggio. Siamo intorno al 1869 periodo in cui il Sudan in generale, ma la regione del Darfur in particolare, erano esposti giorno e notte all’assalto di bande di negrieri che piombavano nei villaggi per rapire uomini, donne e bambini da investire nel mercato umano. È proprio uno di questi assalti che irrompe con violenza nella vita felice della piccola Bakhita, quando un giorno, tornando dai campi con la mamma e gli altri fratelli, trova a casa solo una delle sorelle che erano rimaste al villaggio, l’altra era stata rapita. . .questo rapimento è l’inizio del dolore, anche se il suo viaggio deve ancora cominciare. Il suo viaggio comincia a circa 9 anni quando, in una mattinata apparentemente tranquilla in compagnia di una sua amica, si trovano a fare i conti con degli stranieri che con un inganno le allontanano e lei si ritrova sola in mezzo ai campi con davanti la sola cattiveria di un uomo che la minaccia di morte se prova ad urlare. Piccola come era e schiacciata dalla paura non solo non aveva la forza di urlare, ma nemmeno quella di pronunciare il suo nome a quegli sconosciuti, che con crudele ironia la soprannominarono Bakhita (= la fortunata), il nome con cui è conosciuta fino ai nostri giorni. È assurdo da credere per tutto il dolore che ha vissuto, per tutta la violenza e le torture che ha subito, ma quel nome pronunciato dalle labbra crudeli di quei negrieri, in realtà era Dio stesso a pronunciarlo come una profezia, come una promessa, quel Dio ancora sconosciuto ma così vivo nel suo cuore e fedele compagno nel cammino della schiavitù. Priva di dignità, ignorata nella sua umanità è stata più volte venduta nei mercati attorno alla capitale, subendo torture impronunciabili come i tatuaggi incisi su tutto il corpo da taglienti rasoi e sfregati con il sale, oppure le pesanti catene che la tenevano legata agli altri compagni schiavi. Tra fughe e padroni diversi, tra speranze appena respirate e privazioni di ogni genere la piccola Bakhita sapeva, persino nello sconforto, custodire quella libertà interiore che nessuno poteva negarle e che le permetteva di raggiungere i suoi cari, anche se solo con i pensieri, provando così un po’ di conforto: “ Quanto io abbia sofferto in quel luogo, non si può dire a parole. Ricordo ancora quelle ore angosciose quando, stanca dal piangere, cadevo sfinita al suolo in un leggero torpore, mentre la mia fantasia mi portava fra i miei cari lontano lontano… Lì vedevo i miei amati genitori, fratelli e sorelle e tutti abbracciavo con trasporto di tenerezza, narrando come mi avevano rapita e quanto aveva sofferto. Altre volte mi sembrava di giocare con le mie amiche nei nostri campi, mi sentivo felice. . .” . Venduta per la quinta volta si ritrova comprata dal console italiano Callisto Legnani, residente nella capitale sudanese, e con lui il suo nome si rivela nella sua profezia, si svela nella sua promessa. Lasciata l’Africa arriva in Italia con il suo “padrone buono” e qui presta servizio come bambinaia della famiglia Michieli.
Grazie a questa famiglia la sua vita si intreccia con quelle delle Suore Canossiane di Venezia con cui vive per un po’ di tempo insieme alla bambina dei Michieli e grazie alle quali, in questa occasione, per la prima volta riceve in dono un Crocifisso: “nel darmelo lo baciò con devozione, poi mi spiegò che Gesù Cristo, Figlio di Dio, era morto per noi. Io non sapevo che fosse, ma spinta da una forza misteriosa lo nascosi. . .lo guardavo e sentivo una cosa in me che non sapevo spiegare”. Con l’aiuto delle suore comincia la scoperta della fede cristiana o meglio viene aiutata a riconoscere quel Gesù che da sempre le abita il cuore:
“ Allora quelle sante Madri con una eroica pazienza mi istruirono e mi fecero conoscere quel Dio che sin da bambina sentivo nel cuore senza sapere chi fosse. Ricordo come, vedendo il sole, la luna e le stelle, le bellezze della natura, dicevo tra me chi fosse il padrone di queste belle cose e provavo una grande voglia di vederlo, di conoscerlo, di prestargli omaggio. . . .e ora lo conosco. Grazie, grazie, mio Dio! ”
Gustando i tesori della fede riceve il Battesimo, la Cresima e la Comunione il 9 gennaio del 1890, fino al desiderio di essere tutta di quel “Padrone” che da sempre le aveva tenuto la mano fino alla salvezza e alla libertà e così entrò nel convento delle Suore Canossiane, pronunciando i primi voti l’ 8 dicembre del 1896. Diventata suora trascorse il resto della sua vita a Schio lavorando come portinai, cuciniera, sagrestana, aiuto infermiera distinguendosi in tutto per la sua amabilità. Le sue virtù non passavano inosservate agli occhi di nessuno e per questo fu invitata a raccontare la sua storia e sebbene fosse molto timida si trovò a girare l’Italia con la sua testimonianza. Nei suoi racconti commuoveva tutti quando narrando le torture della sua prigionia li presentava come tratti della Provvidenza divina e per i negrieri che l’avevano tanto fatta soffrire provava solo amore, così tanto amore da farle dire:
“ Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita, e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché se non fosse accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa. Poveretti poi, forse non sapevano di farmi tanto male: loro erano i padroni, io ero la loro schiava. Come noi siamo abituati a fare il bene, così i negrieri facevano questo, perché era loro abitudine, non per cattiveria ”.
Con il racconto della sua vita, Bakita, metteva tutti davanti alla presenza viva e vera di Dio, che dopo qualche tempo di malattia l’8 febbraio 1947 la ricongiunse completamente a sé. La sua morte fu una festa di riconoscenza e di ospitalità di tanta gente che voleva accogliere nella propria tomba il corpo di quella che già si sapeva essere una santa. Il processo di canonizzazione cominciò 12 anni dopo la sua morte e successivamente, alle virtù eroiche riconosciute da Papa Giovanni Paolo II nel 1978, si aggiunse il miracolo che l’ha fatta proclamare santa il 1° ottobre del 2000. Oggi Bakhita continua a parlarci attraverso il suo Diario e anche grazie a quanti hanno scritto di lei e a noi giovani in cerca del volto di Dio dice:
“ Non è bello quello che pare più bello, ma quello che vuole il Signore ”.
Con l’augurio che questo meraviglioso viaggio di santità
intrecci il tuo e ti faccia santo!
(Cf. Sicari A., Nuovi ritratti di Santi, vol. 3 p 163, Jaca Book)